Visualizzazione post con etichetta Io odio scrivere. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Io odio scrivere. Mostra tutti i post

domenica 6 dicembre 2015

Io odio scrivere!



Io ODIO scrivere

Copyright © di Flavia Di Cosimo




Dedicato con stima e affetto a Flavio


di te ricorderò sempre:

la tenerezza e l’orgoglio che ti riempiva il volto quando parlavi di tuo figlio,

i tuoi valori e i tuoi principi che ti rendevano un guerriero buono,

la profondità del tuo animo 

particolarmente sensibile,

soprattutto verso il popolo Nativo Americano,

 la tua ironia che portava allegria e armonia,

la tua voglia di vivere che restituiva sempre ottimismo e gioia,

e, soprattutto, il tuo splendido sorriso solare!


Grazie Flavio

Prefazione


Il titolo del libro è davvero imbarazzante ma è stato talmente divertente “giocare” anche su questo che non ho potuto farne a meno!

Questo breve racconto prende spunto da una storia vera: non molto tempo fa, mi ritrovai quasi per caso a partecipare a un corso di scrittura creativa e lì conobbi delle persone davvero gradevoli.

Non avevo alcuna esperienza in merito alla scrittura; cominciai a seguire il corso solo per curiosità, senza sperare di scoprire alcun talento nascosto in me. Fui “obbligata” a svolgere degli esercizi di scrittura e così, per scherzare sulla mia figura del tutto anonima, cominciai a scrivere ironici racconti che in qualche modo potevano far divertire le persone con le quali lavoravo nel gruppo (insegnanti, poeti, scrittori già noti, ecc.).

Riuscii a strappare dei piacevoli momenti di risate senza intralciare il percorso lavorativo.

Questo breve racconto lo dedico a loro e soprattutto a Flavio, ma ci tengo a precisare che ogni riferimento a cose, persone o fatti è puramente casuale.

Riassunto


Il narratore di questa storia è anche la protagonista del racconto.

Come già detto, si tratta di una ragazza che partecipa a un corso di scrittura creativa.

Imbranata e convinta di essere incapace di scrivere in maniera corretta, vive le lezioni in maniera quasi drammatica.

Questa donna è un concentrato esplosivo dato da un miscuglio di buddismo, PNL e psicoanalisi: in maniera goffa e a volte anche infantile, descrive ironicamente la sua disavventura.

In modo del tutto singolare, vivrà questa esperienza come una vera e propria sfida!

Tra mille dubbi e buffi episodi, riuscirà a emergere qualitativamente dalla sua ombra. Comincerà così un percorso rivolto a se stessa che inaspettatamente la gratificherà.

Capitolo I

La bambina che rompe il patto e il suo amore per la scrittura


Caro lettore, sappi che questo racconto parla di me e della mia disavventura legata a un corso di scrittura creativa.

Se proprio devo essere onesta, ti suggerisco di non farti ingannare da questa testata fuorviante (“La bambina che rompe il patto e il suo amore per la scrittura”) perché si tratta solo di una “bravata da corso” (abbi pazienza e a breve ti darò le mie motivazioni).

Ci tengo a precisare subito due cose: in primo luogo questo racconto non parla di nessun amore per la scrittura e secondo poi, vorrei chiarire che questo “titolo” è servito solo ad accaparrarmi l’attenzione della mia insegnante.

Lei, infatti, ci ha spiegato che questo ha sostanzialmente lo scopo di catturare l’interesse del lettore (e io in questo preciso momento mi sto appunto chiedendo se sono riuscita ad accaparrarmi la “tua” di attenzione… Bah! Chissà?! Vabbè…).

In realtà, avrei voluto intitolare questo libro in modo diverso, tipo “io ODIO scrivere!!!” e sono certa che in futuro lo farò!

Per ora, però, non posso farlo perché mi è stata assegnata la lettera “B” da usare nel “titolo” del mio racconto, “B” come “bambina” appunto! E il “titolo” del libro che stai leggendo corrisponde esattamente al “titolo” dell’esercizio che mi è stato assegnato.

Se dovessi rispettare la mia volontà e confermare il “titolo” in “io ODIO scrivere!!!”, la mia insegnante sarebbe lì, pronta a fucilarmi. Ho pensato anche di ammorbidirlo un tantino modificandolo in “La bambina che odiava scrivere!”, ma penso che riceverei lo stesso trattamento, infatti sono assolutamente certa che mi lapiderebbe all’istante.

A questo punto, avendo scritto la parola “titolo” innumerevoli volte in sole due pagine, avrei dovuto meritare l’immediata espulsione dal corso, ma così non è stato. Evvabbè!

In extremis, ho preferito cambiato idea e ho deciso di scegliere un titolo più aggraziato e piacevole per non farla innervosire (lo ammetto: ho paura della sua reazione).

Comunque spero che lei, dopo aver esaminato questa “marachella”, possa comprendere la mia disperazione e mi auguro che sarà più clemente nel suo giudizio.

Per cui, tornando a noi, se sei qui, interessato a leggere qualcosa relativo a un amore per la scrittura oppure a una fantomatica bambina e al suo misterioso “patto”, devi immediatamente chiudere questo libretto e andare a cercare altro.

Mi sono sentita in dovere di fare questa premessa visto che mi è stato spiegato che è fondamentale rispettare il “patto con il lettore”, ossia un accordo tra lo scrittore e il suo pubblico nel quale l’autore promette implicitamente di restare fedele a ciò che inizialmente propone nel libro.

Io così ho fatto.

Ecco, ora che mi sono liberata la coscienza e in qualche modo ho rispettato il “mio” patto con il lettore, posso finalmente cominciare il mio racconto.

Capitolo II

L’inizio di un incubo


La mia amica Carla, il mese scorso, mi ha invitata a partecipare a un corso di scrittura creativa. Ho acconsentito per il piacere di fare qualcosa di diverso in buona compagnia, senza rendermi conto che questa cosa mi avrebbe devastata emotivamente.

Non so come mi sia venuto in mente di accettare questa sfida (e vi garantisco che per me lo è) perché tra i miei obiettivi di certo non c’è nulla legato al mondo della pubblicazione ne tantomeno alla necessità di usare la scrittura come mezzo per esternare qualcosa nascosto in fondo all’anima.

Fatto sta che mi ritrovo iscritta a questo corso, con gente a me estranea e assolutamente distante dalla mia realtà.

Sono qui in piedi, in questa stanza ben illuminata, con gli altri partecipanti, smarrita come fossi una bambina al suo primo giorno di scuola.

Noto con piacere che, in fondo a destra, c’è un grande scaffale con decine di libri perfettamente allineati: donano calore alla stanza riempiendola di storie e magia. Non ci sono, però, fotografie che parlano di una vita privata e questa cosa non mi conforta. Le pareti color avorio sono tappezzate con  stampe di quadri d’autore. Al centro della stanza c’è un grande tavolo di mogano scuro: invece del solito centrotavola di ricorrenza, sopra ad esso c’è una bottiglia d’acqua con bicchieri di plastica colorata; accanto ci sono dei fogli bianchi ben impilati e un portapenne di cuoio scuro.

Conto velocemente le sedie e mi accordo che c’è una postazione vuota. Probabilmente un partecipante al corso è riuscito a dileguarsi con chissà quale scusa. Dovrò ricordarmi di chiedere informazioni su questa cosa, così da poter utilizzare anche io lo stesso alibi del latitante, magari tra un paio di lezioni!

Loredana, l’insegnante, ci invita a sederci e così prendo posto proprio vicino a lei. Metto la mia borsa a terra, accanto alla sedia, e sistemo la mia giaccia sullo schienale di legno in maniera ordinata.

Francesco è l’unico uomo e, visto che ha il mio stesso nome, mi è già simpatico. Indossa un jeans scuro e un maglione color tortora: sempre meglio dei soliti pantaloni classici accompagnati da una triste camicia formale! Ha portato con se una borsa e da lì tira fuori un computer portatile. Lo sistema sul tavolo con molta serenità, come fosse certo di fare la cosa giusta.

Quasi irritata, mi chiedo se anche io avrei potuto portare il computer con me, ma prima di perdermi in questo pensiero inabissante, mi consolo e sorrido nel notare che ha al polso un curioso braccialino rosa, inequivocabile regalo di una bimba vanitosa. Questo dettaglio smonta la sua aria saccente rendendola umanamente buffa. Rivalutando la sua immagine, a sua insaputa, mi sono presa la mia rivincita per il fatto che lui ha portato un computer con se e io no.

Loredana, ci consegna dei fogli e nella prima pagina viene fuori tutto il mio karma rispetto a questo corso. Tra le prime cose c’è scritto: “perché siete qui?” e a questo punto ho il sospetto che anche le malefiche slide si stiano prendendo gioco di me!

Lei è molto ironica, un bel sorriso per fortuna, indiscutibilmente preparata. Si capisce che è un’ottima osservatrice perché studia ogni nostro movimento con estrema discrezione e attenzione. Ovviamente non le sfugge neanche il senso di insicurezza che mi invade, infatti mi sostiene con qualche frase di incoraggiamento del tipo: “ce la farai...”.

Serrando i denti e stringendo le labbra, a mente mi chiedo: “Ma a fare cosa? Scrivere? Io? Io che proprio non ho nessuna intenzione di pubblicare un libro!”.

Voglio puntualizzare che il mio nome nell’elenco dei partecipanti non deve automaticamente suggerire che ambisco alla pubblicazione di un libro! Sono qui solo per curiosità, per fare esperienza, perché amo scrutare le persone, capire cose nuove, frequentare nuovi ambienti. Nulla di più. Mi pare già sufficiente come scusa per “non scrivere” un libro, no?

Gli altri partecipanti sono tutti molto istruiti e colti: questa cosa mi mette un po’ a disagio. Ognuno ha una sua motivazione, una sua ambizione. In poche parole sanno esattamente perché sono là, seduti su quella sedia a idolatrare l’insegnate. Io invece no, non lo so ancora.

A questo punto sono molto perplessa perché solo ora capisco che dieci anni di psicoanalisi sono serviti a ben poco!

In un paio d’ore l’insegnante ci illustra il percorso da fare e ci sprona a dare un’occhiata a tutte le slide che ci ha consegnato.

Vedo che nel frattempo, ognuno le aveva posizionate sul tavolo in maniera ordinata mentre io sono l’unica ad averle (inconsciamente) ben arrotolate con le mani. Solo ora mi sto chiedendo se, senza accorgermene, le ho utilizzate per giocherellare, come fossero un cannocchiale! Accidenti! Conoscendomi, penso proprio di averlo fatto! Cominciamo proprio bene…

Studio i volti dei partecipanti per tentare di capire dalle loro espressioni se davvero il mio lato “imbarazzante” è emerso con quel gioco così poco professionale. Invece mi accorgo che sono così concentrati che anche se lo avessi fatto veramente, nessuno se ne sarebbe accorto! Oppure no? Forse mi stanno elegantemente ignorando? Un po’ come si usa fare per emarginare un bullo o il “somaro” della classe!?

Capitolo III

L’indulgenza


La nostra insegnante continua serenamente la sua lezione. Fa una piccola premessa e senza alcuna imposizione, cerca garbatamente di sottolineare che preferisce avere i nostri lavori sotto forma di manoscritto anziché in forma stampata (attraverso l’uso del computer). Al che ho pensato tra me e me: “Già che mi hai dato la possibilità di scegliere, stai pur cerca che non rinuncerò mai all’uso del correttore automatico, google e wikipedia! Quindi i miei lavori, anche se la cosa non ti garba, saranno in forma stampata!”.

Dopo averci descritto le linee guida sulla struttura di un racconto, Loredana ci esorta a prendere la slide numero cinque e ci chiede di scrivere su questa pagina i consigli che ci ha fornito, così da tenerli a mente in futuro.

Ognuno impugna la propria penna e, chini sul proprio foglio, tutti cominciano a prendere appunti. Lo faccio anche io, mostrandomi seria e determinata, anche se tra un paragrafo e un altro inserisco qualche “smile” per ricordarmi che la vita va presa con filosofia!

Ad un tratto Carla, seduta di fronte a me, fa cadere per errore la sua penna. Si piega su un lato per raccoglierla e, in questo faticoso tentativo, spinge la sedia in dietro per almeno mezzo metro, facendola stridere fragorosamente sul pavimento. Nessuno di noi alza la testa, ma tutti solleviamo contemporaneamente lo sguardo (e un sopracciglio) per osservare la scena. Lei, con estrema disinvoltura, raccoglie la penna e cerca di sistemare la sedia tirandola a se una, due, tre, quattro volte, facendola sfrigolare rumorosamente sul marmo ad ogni tentativo. Incurante di noi, si concentra ad ogni aggiustamento misurando velocemente lo spazio tra lei e il tavolo. All’improvviso si mette dritta con la schiena come a testare la comodità della posizione. Finalmente riesce a trovare quella giusta! Impugna la famigerata penna e come nulla fosse accaduto, riprende a scrivere i suoi appunti.

Bè, se lei ha fatto questo senza che nessuno la riprendesse, mi sento di meritare l’indulgenza per la storia del binocolo! Secondo voi, sto forse chiedendo troppo? Non so perché, ma in questo momento mi sembra di aver tolto la spada di Damocle che mi pendeva sulla testa: non sento più quel fastidioso senso di imbarazzo che mi affliggeva! I miei pensieri stanno già sfarfallando come se esultassero in una partita chiusa con un pareggio, nonostante i pronostici negativi.

Cerco di non distrarmi e riprendo a seguire con attenzione la spiegazione di Loredana.

Capitolo IV

L’esercizio


Durante la lezione scopro che un racconto va strutturato in un certo modo, seguendo delle regole ben precise: non bastava la mancanza di motivazione, ora ci si mette anche la tecnica da studiare! E in virtù del detto “Repetition is the mother of skill”, comincio con il mio solito mantra “ce la posso fare, ce la posso fare, ce la posso fare” nella speranza di non essere sopraffatta dallo sconforto.

Sono tutti attenti e ognuno cerca di individuare le proprie lacune tranne me, ovvio, che con gli occhi cerco una via di fuga: la finestra, la porta o almeno il bagno!

Pian piano prendo coscienza della situazione e la mia anima, che nel frattempo vagava negli angoli più remoti della casa, finalmente rientra in questo corpo terreno.

Mi rilasso e penso che in effetti non è poi così terrificante questo corso: “Si, non è stata una cattiva idea”, dico tra me e me. Se non fosse che a un tratto mi balza lo sguardo all’ultima pagina della brochure e leggo la parola “Esercizio”.

Il mio mantra è andato a farsi benedire e dentro di me rimbomba, con tanto di eco, solo ed esclusivamente la parola “Esercizio”. Tutti sono entusiasti tanto che non riescono più a tenere fermo il loro fondoschiena sulla sedia!

Ad ognuno è stata assegnata una lettera che dovrà essere presa come spunto per dare un adeguato titolo al racconto che dovremo svolgere a casa in maniera autonoma. A me è stata assegnata la lettera “B”. “B” come… brutte bertucce, baccalà, bisbetica, bistecca, bestiacce, brontoloni, “borca baletta”, “ba a be chi be la batto bare!”, ecc.!!!

Nel frattempo la nostra prima lezione si conclude: è a questo punto che, tra baci e abbracci, cominciano le pacche sulle spalle e le parole di cordoglio nei miei confronti: “ce la puoi fare...”.

Ora che ci penso... ma quello, non era il mio mantra?! Me l’hanno rubato sotto il naso!!!

Rassegnata mi rivolgo alla mia compagna di corso, Alessandra, stando ben attenta a non essere ascoltata da nessun altro: “Cosa scriverai tu? Non è che ti avanzano due righe da passarmi sotto banco?”. Mi ha severamente rimproverata con lo sguardo come fossi una bambina in cerca di un escamotage. Ripensandoci non è stata una buona idea rivolgermi proprio a lei, visto che tra tutti era stata senza alcun dubbio la più attenta e la più disciplinata.

Faccio spallucce e mi abbandono all’idea che l’unico modo per uscirne dignitosamente è quello di fingere un prematuro “blocco dello scrittore”.

Capitolo V

La fuga annullata


Torno a casa avvolta da mille pensieri. Mangio velocemente un panino con tonno e insalata e comincio come al solito a recitare le mie preghiere. Così, dopo aver ripetuto per almeno duemila volte “Namu myōhō renge kyō” davanti al mio butsudan nella speranza di fare chiarezza in me, mi decido ad andare a letto, quantomeno senza sentirmi più addosso il senso di sconforto che poco prima mi angosciava!

La settimana passa in fretta e io, nei ritagli di tempo, cerco di lavorare su questo benedetto “Esercizio”. Sono riuscita a scrivere qualcosa, non so bene in cosa in realtà, ma almeno ho messo insieme delle parole in maniera più o meno ordinata!

Sono assolutamente certa che a questo punto la mia unica speranza è di trovare un alibi per fuggire dal corso, cercando di scoraggiare la mia insegnate a tal punto da farmi cacciar via dalla lezione. L’unica cosa che mi viene in mente è quella di dimostrarle che, nonostante gli sforzi, la mia indole mi porta senza alcun dubbio verso altre strade.

Così cerco di non impegnarmi troppo (e in effetti non credo di aver ottenuto un buon risultato).

I giorni passano e così arriva il famigerato giorno e sta per iniziare la seconda lezione. Rifletto sul mio lavoro e nonostante stia cercando di allontanare da me pensieri negativi, mi viene in mente che io non ho il blocco dello scrittore, piuttosto ho “la croce” dello scrittore!

Vivo con me stessa da 40 anni e ancora devo capire come faccio a infilarmi continuamente in situazioni per me così, come dire? Distruttive. Si, “distruttive” è il termine giusto!!!! Stavo tanto bene nel mio angolino, con il mio lavoro tranquillo, con la casa da pulire, la figlia da educare, ecc. Avevo già il mio bel da fare! Ma come mi vengono in mente certe idee? Partecipare a un corso di scrittura! Imperdonabile questa cosa.

Ecco che Loredana legge uno dopo l’altro i lavori svolti.

Niente da fare! Il mio esercizio nel frattempo non si è perso, malgrado stessi sperando in un’improvvisa dematerializzazione. Lo prende tra le mani e fa scorrere velocemente gli occhi tra le righe.

A un certo punto alza lo sguardo e mi osserva con aria interrogativa. Rapidamente ricontrolla il nome scritto in alto a destra. Eh si, è proprio il mio! Accigliata, mi guarda di nuovo, in un misto tra rimprovero e stupore. Poi rilassa i muscoli della fronte sospirando e mette gli occhiali per non farsi sfuggire neanche una virgola. Mentre lei continua la lettura io comincio a sudare freddo; il respiro comincia a farsi corto e il mio sedere non trova pace sull’ardente sedia di legno.

Finisce di leggere e mette il mio esercizio sul tavolo. Poggia i palmi delle mani su di esso, come a voler immortalare quel momento e innalza severamente il capo.

In questo istante sto vivendo i secondi di silenzio e confusione più inquietanti della mia vita.

Irrigidita, seria, determinata e esultante, prende il mio racconto e lo tira su con la mano destra, volteggiandolo in aria come fosse una bandiera e, rivolgendosi al gruppo, dice: “Ragazzi, questo è un racconto perfetto!”.

Resto basita. Ho gli occhi fuori dalle orbite. La mia bocca si apre senza il mio volere.

Gli altri guardano Loredana, poi me, poi Loredana, poi me e di nuovo Loredana! Poi cominciano a scambiare sguardi perplessi tra loro e infine tutti gli occhi si ritrovano su di me come fossero lance sanguinarie. La mia bocca è ancora spalancata.

Nonostante mi sia impegnata a mostrare tutta la mia poca sostanzialità attraverso la mia buffa esposizione del testo, sono riuscita comunque ad accaparrarmi l’attenzione dell’insegnante. Ero fiduciosa, anzi, ero praticamente certa che Loredana mi avrebbe detto una frase non proprio di circostanza: “Ok! Con te abbiamo scherzato! Puoi partecipare ma ti prego, non scrivere più!”. E invece, no! Nonostante i miei sforzi per sottrarmi al mio saṃsāra, mi ritrovo ad essere travolta per l’ennesima volta dalla mia stessa ruota autolesionista!

Comincio a sentire un borbottio unanime e pian piano arrivano inevitabilmente le frecciatine: “E tu saresti quella che non sa scrivere, eh!?”.

La mia sedia ad un certo punto si trasforma in un mostro di fango e comincia ad ingoiarmi: mi risucchia lentamente come fosse fatta di sabbie mobili: mi sento piccola e indifesa! Per fortuna Loredana mi viene a salvare e, senza perdere altro tempo, dice: “Continuiamo la lezione. Silenzio per favore!”.

Capitolo VI

Il MIO dolcetto


Tutto ritorna pian piano alla normalità e ognuno, disciplinatamente, si rimette dritto sul proprio posto, impugnando la penna come a voler accettare una nuova sfida. L’atmosfera, silenziosa e pacata, sembra quasi serena e tranquilla se non fosse che le sopracciglia di tutti sono vistosamente corrugate.

Io sono talmente in ansia per il mio piano andato in fumo, che non ho tempo di preoccuparmi del loro disappunto!

Sto cercando nuove scappatoie e così mi viene in mente Paola, che era stata assente nella lezione precedente. La guardo con aria inquisitoria: oggi si è seduta comodamente al suo posto e non si è neanche degnata di esternare il suo alibi. Ho la vaga impressione che rimarrà un segreto tra lei e Loredana. Per questo ho deciso, proprio in questo istante, che la terrò d’occhio: questa Tizia, apparentemente tanto innocua, non me la racconta giusta! Con quei capelli corti e ricci, gli occhietti furbi e vivaci, tanto simpatica e allegra! “Ah, ma con me non attacca! Stanne certa!” sibilo tra le labbra strette con la speranza di essere sentita da lei!

Loredana ha preparato una nuove serie di slide. Non ci lascia il tempo di distrarci che subito ce le consegna. Le prendo in mano e, rassegnata, vado a leggere l’ultima pagina. Spero in un miracolo ma la dura realtà mi prende di nuovo a pugni in faccia con la medesima metodica della volta precedente: c’è scritto a caratteri cubitali “ESERCIZIO”. Cerco di digerire il boccone amaro con dignità, sollevando lentamente lo sguardo dal foglio nel vano tentativo di mascherare il mio sconforto.

Inaspettatamente, Paola tira fuori dalla sua borsa un piccolo vassoio e lo posa sul tavolo. Con voce squillante, ondeggiando sulla sedia con soddisfazione, si rivolge al gruppo dicendo: “Ho portato dei pasticcini!”.

Ecco che, all’improvviso, la mia angoscia mentale svanisce e lascia spazio solo ai miei sensi gustativi! Ora sì che si manifesta a pieno tutto il mio entusiasmo per questo corso! Sono quasi tentata di rivalutare l’idea che mi sono fatta di Paola! Poi penso che forse, anche questo fa parte del suo gioco: “starà mica escogitando qualcosa? Sta cercando di costruirsi un’immagine affabile per farci cadere nella sua trappola? Oppure lo sta facendo per farsi perdonare facilmente la sua assenza ingiustificata? E no! Il vassoio sì, lo accetto, ma l’idea che mi sono fatta di te per ora resta inalterata! Sia ben chiaro!”

Loredana ringrazia, intimidita dal gesto, e scarta il vassoio per poi posizionarlo accanto ai bicchieri di carta colorata, al centro del tavolo.

Come le mosche sulla marmellata, il mio sguardo si precipita ad afferrare visivamente il mio dolcetto! Lo vedo, è lì, nell’angolino in fondo a destra: basta allungare un po’ la mano ed è mio!

Si tratta di una piccola pasta sfoglia croccante, a forma di fiore, ricoperta per metà da cioccolato fondente e per l’altra da piccoli granelli di zucchero colorato! Sento già il profumo del cacao e della vaniglia che si sposano sotto il mio naso. Comincio ad immaginare lo scricchiolio tra i denti dello zucchero mentre si mescola con l’amaro del cioccolato fondente: ho l’acquolina in bocca!

La mia mano è faticosamente trattenuta dalle donne del corso che cominciano, con tutta calma (e non so perché), a dialogare tra loro con fare pacato.

Loredana gentilmente si rivolge a Carla:

–– “Prendine uno!”

Carla, rivolgendosi alla sua vicina di posto, dice:

– “Ma no... scegli prima tu Alessandra!”

E lei garbatamente risponde:

– “Fate fate, che poi lo prendo io!”

E invece Francesco, mentre le altre si trastullano serenamente nelle loro formalità di circostanza, allunga la mano e prende serenamente il MIO dolcetto. Lo fulmino con lo sguardo, lo gelo con una tempesta di ghiaccio, gli lancio milioni di saette e lo finisco con l’onda energetica di Goku, il super Sayan dei cartoni animati che vedeva tempo fa mia figlia in televisione! Lui non lo sa, ma se ha salva la vita è solo perché Paola, saggiamente, aveva preso due dolcetti per ogni tipo! Per cui, mentre regnava una sorta di “fate vobis” tra donne, mi affretto a prendere l’ultimo pasticcino al cioccolato che è rimasto: è lì, accanto al posto del MIO dolcetto ormai scomparso, quello che mi è appena stato rubato da Francesco!

Soddisfatta penso: “L’ho preso, è mio! Ora nessuno me lo porterà via!” e lo infilo in bocca prima che si volatilizzi per chissà quale altro imprevisto!

Mentre mastico rabbiosa e con ingordigia, noto lo sguardo disciplinante delle donne che mi fissano con un misto tra sdegno e rimprovero! Si sentono in qualche modo offese nella loro femminilità dal mio comportamento goffo e infantile. Questo perché, nonostante io non ne fossi rappresentativa, appartenevo comunque al genere “femminile”, lo stesso che avevo in comune con loro.

Non ho perso tempo a riflettere su questo mio atteggiamento “femminicida” e, senza chiedermi se fosse giusto il mio o il loro atteggiamento, ho semplicemente ignorato tutto ciò che contiene il galateo nelle sue pagine e ho ingoiato sonoramente il mio tanto desiderato biscotto.

Speravo di pensarlo soltanto, invece ho detto con determinazione:

– “Mbè? Che ho fatto!?”

Francesco, da bravo maschietto, non si era minimamente posto il problema e non capisco perché lui sia dovuto passare nell’indifferenza totale mentre con me era stato indispensabile sottolineare quel comportamento sgraziato, con tanto di sguardi punitivi! Bè, pensassero ciò che vogliono: la cosa fondamentale è che io ho ottenuto il mio pasticcino. Così mi sono chiesta: “Sarà che anche loro desideravano il MIO dolcetto?”

Dopo questa breve pausa, riprende la lezione.

La spiegazione di oggi incarna i punti della volta precedente, sottolineando alcuni elementi ed introducendo nuovi termini che fino ad allora pensavo fossero per me alieni. Ora mi sono più chiari alcuni concetti e mi terrorizzano un tantino meno i passaggi relativi alla struttura di un racconto. Fisso mentalmente alcuni elementi, li metto in ordine e assegno addirittura una didascalia ad ognuno di loro! Soddisfatta della chiarezza che ho fatto dentro di me, comincio a sentirmi “quasi” a mio agio.

La lezione termina anche questa volta. Tutto procede come la volta precedente. Torno a casa, recito le mie preghiere, mi rilasso e mi preparo ad una nuova settimana. Con più serenità, lavoro al mio secondo esercizio.

Capitolo VII

Il mistero della ciotola blu


Inesorabilmente arriva il giorno della terza lezione. Ci ritroviamo di nuovo lì, seduti intorno al tavolo di mogano. Ormai tutti mi osservano con aria minacciosa: non sono più una loro compagna di corso, ma una rivale da sconfiggere. Posso dire addio alle famose “righe passate sotto banco” che speravo di ricevere tempo fa.

Consegniamo come sempre i racconti a Loredana. Lei li raccoglie in maniera ordinata e li sistema seguendo una sua logica, a me ignota.

Improvvisamente mi rendo conto che il mio spirito di sopravvivenza mi ha portata ad affrontare questo “problema” con più sicurezza. Sono riuscita in qualche modo a superare la mia zona di confort ripetendomi “if you can’t then you must”. Soddisfatta di me stessa, mi concentro soltanto sulla lezione, cercando di non pensare al compito che ho svolto a casa.

L’insegnante fa alcune precisazioni sull’impaginazione di un testo, sul carattere da scegliere, il formato, l’impostazione della pagina, ecc. È una persona carismatica ed intelligente. Riesce a portare a conclusione quelle due ore di corso misurando bene il tiro tra ironia e serietà, senza farle pesare. Mi stupisce ogni volta la sua professionalità e la sua preparazione impeccabile.

Loredana si accinge a leggere ad alta voce il primo racconto e, prendendo spunto da esso, comincia ad evidenziare le nostre lacune.

Non ho capito chi ha scritto il racconto che l’insegnate sta leggendo. So solo che, da questo momento, inspiegabilmente il panico si è impossessato di nuovo di me. Provo una profonda invidia per Paola, che era stata assente durante la prima lezione e che con un’altra scusa era riuscita ad essere esonerata dal compito da svolgere a casa. Sono riuscita a perdonarla emotivamente solo per i dolcetti che aveva portato la volta precedente…

Loredana legge uno dopo l’altro i nostri racconti, soffermandosi sulle problematiche che ognuno di noi ha. Ci suggerisce nuovi spunti, correzioni da apportare e ci fa notare dove e come modificare la struttura del testo. Ci ricorda costantemente l’importanza dell’editing mentre continua la lettura dei nostri esercizi.

Purtroppo arriva anche il mio turno. Sinceramente mi sento sollevata perché ero decisamente in agonia su questa sedia e l’unica consolazione che ho, è che questo tormento presto avrà fine!

Sorridendo legge il mio “comico” racconto. Mi dice che è un buon lavoro, mi corregge alcune cose e mi suggerisce di addolcire il finale. Penso: “Tutto qua? Non mi dici che devo darmi all’ippica?”

A questo punto le frasi di incoraggiamento della volta precedente (“ce la puoi fare...”) si trasformano in veri e propri sguardi minacciosi accompagnati da: “Ma ci stai prendendo in giro? Possibile che non hai mai scritto nulla prima di questo corso?”.

Mi chiedo dove sia andata a finire tutta quella galanteria servizievole che avevano le donne del corso nell’offrire il vassoio dei pasticcini la volta precedente: probabilmente nel secchio!

Ognuno è avvolto nei suoi pensieri: siamo concentrati sui nostri racconti, sulle modifiche da apportare.

Ad un tratto Loredana ci sorprende e ci porge una piccola ciotola blu ricolma di foglietti di carta piegati più volte su se stessi, come a voler nascondere in ognuno di essi chissà quale messaggio segreto. Ci esorta a pescarne uno ciascuno.

A questo punto comincio a sfregarmi le mani sotto al tavolo con un certo cinismo perché noto che l’ansia ora non appartiene più soltanto a me, ma anche agli altri partecipanti del corso.

Ricomincia il famoso dialogo tra donne: “fai tu”, “prego, prego”, “scegli prima tu”. In maniera altrettanto sgraziata, come avevo già fatto con il dolcetto, prendo frettolosamente il mio bigliettino. A questo punto però, non c’è stato nessuno sguardo punitivo, anzi! Mi guardano compiaciute quasi volessero spingermi a pescarne un altro e un altro ancora! Scarto il mio foglietto e lo stiro nel palmo della mano. Lo giro per comprendere la lettera scritta al suo interno che, ovviamente, era sottosopra (come me in quel momento). Lettera “E”.

L’insegnante ci chiede di svolgere un racconto partendo proprio da quella lettera, facendo sì che sia uno spunto per lo sviluppo dei nostri racconti, così come avevamo fatto la volta precedente.

Tutto qua? E noi che ci aspettavamo una profezia o almeno due numeri da giocare al lotto!

Capitolo VIII

Sono salva!


Cerco di sbirciare le lettere dei miei compagni di corso, nel vago e incerto tentativo di cambiare la mia lettera con qualche cosa di migliore.

A questo punto, superata la paura dell’ignoto della pesca misteriosa, ognuno ha preso il suo biglietto. C’è chi stringe quel pezzettino di carta sul petto, come fosse un tesoro e c’è chi lo osserva con ardore sistemandolo con precisione sul foglio di lavoro! Vedo i loro sguardi trasognanti, ricchi di entusiasmo e fantasia mentre cominciano a lavorare mentalmente sul loro nuovo racconto da svolgere.

Inebetita riapro il palmo della mano: avevo involontariamente accartocciato la mia povera lettera “E”. Il mio psicanalista senz’altro avrebbe tirato fuori tutta una serie di riflessioni legate a questo gesto dettato dal mio inconscio. Cerco di non cadere nei meandri dell’abisso della psicoanalisi freudiana (che si ferma sull’analisi della causa del proprio male) e mi concentro sulla psicoanalisi Junghiana (che impone, una volta raggiunto il punto finale freudiano, una reazione verso il cambiamento positivo).

Così mi esorto a trovare in uno dei miei tanti cassetti eclettici, una citazione che possa sostenermi.

L’unica cosa che mi viene in mente è una di quelle frasi demenziali che girano su internet “Keep calm and eat Nutella”. Sarà per Freud, sarà per Jung, fatto sta che la mia ansia è svanita e mi sono resa conto, come d’incanto, che se mai dovessi imparare a scrivere seriamente, a nessuno importerà più nulla della mia cellulite!

Questo non è assolutamente un fattore da sottovalutare! Mi brillano gli occhi, come illuminata da una miracolosa grazia divina! Gli angoli della bocca cominciano a salire in maniera evidente! Un senso di soddisfazione mi invade: “Si, questa è la mia strada!”. Certa di aver individuato finalmente il mio percorso di vita, seguo con attenzione tutta la lezione.

Anche questa si conclude, il gruppo si separa e ci dirigiamo ognuno verso la propria auto. Continuo a pensare alla mia amata cellulite: “Questa volta nessuno ci separerà!” penso, e nel frattempo metto un piede in una lastra di fango che si trovava poco prima della mia auto. Così faccio un volo in aria… ehm… non proprio da elegante “farfalla”! Mi ritrovo involontariamente ad ammirare le stelle, nell’imbarazzo totale della mia buffa e sudicia immagine! Sorrido di me stessa e mi alzo coraggiosamente, sapendo già di dover affrontare gli sguardi divertiti dei miei compagni di corso! 

Carla, premurosa, si avvicina dicendo: “Ti sei fatta male?”

E anche qui ricomincia di nuovo la solita tiritera del “bla bla bla” femminile! 

Sono quasi in fase di vendetta perché, mentre loro sono lì a spolverarmi i vestiti chiedendosi come io abbia fatto a cadere, Francesco ride! Ride. Ma ride di gusto!!!! Non si preoccupa neanche degli sguardi severi delle donne del gruppo, gli stessi che a me incutevano una certa soggezione.

Penso tra me e me: “Ridi ridi, la vendetta sarà lenta e dolorosa...” e alzando un sopracciglio, con aria sdegnata, dico: “Tranquille belle donne! Non mi sono fatta nulla! Tutto a posto!” e, zoppicando vistosamente, raggiungo a fatica la mia auto. Salgo, mi siedo, faccio un bel respiro e con il dolore che ancora mi pulsa sul lato destro della gamba, penso: “Anche questa è andata…”.

Trasognante mi avvio verso cosa, certa che questa volta la vita mi abbia dato una buona opportunità. Riflettendo sull’insegnamento di Nichiren Daishonin mi dico: “Ecco come trasformare il veleno in medicina!” e fiduciosa comincio a pensare seriamente di scrivere il mio primo libro, anche se non sono proprio certa di riuscire ad ottenere un buon risultato.

E voi, di tutto questo, cosa ne pensate?