domenica 6 dicembre 2015

Io odio scrivere!



Io ODIO scrivere

Copyright © di Flavia Di Cosimo




Dedicato con stima e affetto a Flavio


di te ricorderò sempre:

la tenerezza e l’orgoglio che ti riempiva il volto quando parlavi di tuo figlio,

i tuoi valori e i tuoi principi che ti rendevano un guerriero buono,

la profondità del tuo animo 

particolarmente sensibile,

soprattutto verso il popolo Nativo Americano,

 la tua ironia che portava allegria e armonia,

la tua voglia di vivere che restituiva sempre ottimismo e gioia,

e, soprattutto, il tuo splendido sorriso solare!


Grazie Flavio

Prefazione


Il titolo del libro è davvero imbarazzante ma è stato talmente divertente “giocare” anche su questo che non ho potuto farne a meno!

Questo breve racconto prende spunto da una storia vera: non molto tempo fa, mi ritrovai quasi per caso a partecipare a un corso di scrittura creativa e lì conobbi delle persone davvero gradevoli.

Non avevo alcuna esperienza in merito alla scrittura; cominciai a seguire il corso solo per curiosità, senza sperare di scoprire alcun talento nascosto in me. Fui “obbligata” a svolgere degli esercizi di scrittura e così, per scherzare sulla mia figura del tutto anonima, cominciai a scrivere ironici racconti che in qualche modo potevano far divertire le persone con le quali lavoravo nel gruppo (insegnanti, poeti, scrittori già noti, ecc.).

Riuscii a strappare dei piacevoli momenti di risate senza intralciare il percorso lavorativo.

Questo breve racconto lo dedico a loro e soprattutto a Flavio, ma ci tengo a precisare che ogni riferimento a cose, persone o fatti è puramente casuale.

Riassunto


Il narratore di questa storia è anche la protagonista del racconto.

Come già detto, si tratta di una ragazza che partecipa a un corso di scrittura creativa.

Imbranata e convinta di essere incapace di scrivere in maniera corretta, vive le lezioni in maniera quasi drammatica.

Questa donna è un concentrato esplosivo dato da un miscuglio di buddismo, PNL e psicoanalisi: in maniera goffa e a volte anche infantile, descrive ironicamente la sua disavventura.

In modo del tutto singolare, vivrà questa esperienza come una vera e propria sfida!

Tra mille dubbi e buffi episodi, riuscirà a emergere qualitativamente dalla sua ombra. Comincerà così un percorso rivolto a se stessa che inaspettatamente la gratificherà.

Capitolo I

La bambina che rompe il patto e il suo amore per la scrittura


Caro lettore, sappi che questo racconto parla di me e della mia disavventura legata a un corso di scrittura creativa.

Se proprio devo essere onesta, ti suggerisco di non farti ingannare da questa testata fuorviante (“La bambina che rompe il patto e il suo amore per la scrittura”) perché si tratta solo di una “bravata da corso” (abbi pazienza e a breve ti darò le mie motivazioni).

Ci tengo a precisare subito due cose: in primo luogo questo racconto non parla di nessun amore per la scrittura e secondo poi, vorrei chiarire che questo “titolo” è servito solo ad accaparrarmi l’attenzione della mia insegnante.

Lei, infatti, ci ha spiegato che questo ha sostanzialmente lo scopo di catturare l’interesse del lettore (e io in questo preciso momento mi sto appunto chiedendo se sono riuscita ad accaparrarmi la “tua” di attenzione… Bah! Chissà?! Vabbè…).

In realtà, avrei voluto intitolare questo libro in modo diverso, tipo “io ODIO scrivere!!!” e sono certa che in futuro lo farò!

Per ora, però, non posso farlo perché mi è stata assegnata la lettera “B” da usare nel “titolo” del mio racconto, “B” come “bambina” appunto! E il “titolo” del libro che stai leggendo corrisponde esattamente al “titolo” dell’esercizio che mi è stato assegnato.

Se dovessi rispettare la mia volontà e confermare il “titolo” in “io ODIO scrivere!!!”, la mia insegnante sarebbe lì, pronta a fucilarmi. Ho pensato anche di ammorbidirlo un tantino modificandolo in “La bambina che odiava scrivere!”, ma penso che riceverei lo stesso trattamento, infatti sono assolutamente certa che mi lapiderebbe all’istante.

A questo punto, avendo scritto la parola “titolo” innumerevoli volte in sole due pagine, avrei dovuto meritare l’immediata espulsione dal corso, ma così non è stato. Evvabbè!

In extremis, ho preferito cambiato idea e ho deciso di scegliere un titolo più aggraziato e piacevole per non farla innervosire (lo ammetto: ho paura della sua reazione).

Comunque spero che lei, dopo aver esaminato questa “marachella”, possa comprendere la mia disperazione e mi auguro che sarà più clemente nel suo giudizio.

Per cui, tornando a noi, se sei qui, interessato a leggere qualcosa relativo a un amore per la scrittura oppure a una fantomatica bambina e al suo misterioso “patto”, devi immediatamente chiudere questo libretto e andare a cercare altro.

Mi sono sentita in dovere di fare questa premessa visto che mi è stato spiegato che è fondamentale rispettare il “patto con il lettore”, ossia un accordo tra lo scrittore e il suo pubblico nel quale l’autore promette implicitamente di restare fedele a ciò che inizialmente propone nel libro.

Io così ho fatto.

Ecco, ora che mi sono liberata la coscienza e in qualche modo ho rispettato il “mio” patto con il lettore, posso finalmente cominciare il mio racconto.

Capitolo II

L’inizio di un incubo


La mia amica Carla, il mese scorso, mi ha invitata a partecipare a un corso di scrittura creativa. Ho acconsentito per il piacere di fare qualcosa di diverso in buona compagnia, senza rendermi conto che questa cosa mi avrebbe devastata emotivamente.

Non so come mi sia venuto in mente di accettare questa sfida (e vi garantisco che per me lo è) perché tra i miei obiettivi di certo non c’è nulla legato al mondo della pubblicazione ne tantomeno alla necessità di usare la scrittura come mezzo per esternare qualcosa nascosto in fondo all’anima.

Fatto sta che mi ritrovo iscritta a questo corso, con gente a me estranea e assolutamente distante dalla mia realtà.

Sono qui in piedi, in questa stanza ben illuminata, con gli altri partecipanti, smarrita come fossi una bambina al suo primo giorno di scuola.

Noto con piacere che, in fondo a destra, c’è un grande scaffale con decine di libri perfettamente allineati: donano calore alla stanza riempiendola di storie e magia. Non ci sono, però, fotografie che parlano di una vita privata e questa cosa non mi conforta. Le pareti color avorio sono tappezzate con  stampe di quadri d’autore. Al centro della stanza c’è un grande tavolo di mogano scuro: invece del solito centrotavola di ricorrenza, sopra ad esso c’è una bottiglia d’acqua con bicchieri di plastica colorata; accanto ci sono dei fogli bianchi ben impilati e un portapenne di cuoio scuro.

Conto velocemente le sedie e mi accordo che c’è una postazione vuota. Probabilmente un partecipante al corso è riuscito a dileguarsi con chissà quale scusa. Dovrò ricordarmi di chiedere informazioni su questa cosa, così da poter utilizzare anche io lo stesso alibi del latitante, magari tra un paio di lezioni!

Loredana, l’insegnante, ci invita a sederci e così prendo posto proprio vicino a lei. Metto la mia borsa a terra, accanto alla sedia, e sistemo la mia giaccia sullo schienale di legno in maniera ordinata.

Francesco è l’unico uomo e, visto che ha il mio stesso nome, mi è già simpatico. Indossa un jeans scuro e un maglione color tortora: sempre meglio dei soliti pantaloni classici accompagnati da una triste camicia formale! Ha portato con se una borsa e da lì tira fuori un computer portatile. Lo sistema sul tavolo con molta serenità, come fosse certo di fare la cosa giusta.

Quasi irritata, mi chiedo se anche io avrei potuto portare il computer con me, ma prima di perdermi in questo pensiero inabissante, mi consolo e sorrido nel notare che ha al polso un curioso braccialino rosa, inequivocabile regalo di una bimba vanitosa. Questo dettaglio smonta la sua aria saccente rendendola umanamente buffa. Rivalutando la sua immagine, a sua insaputa, mi sono presa la mia rivincita per il fatto che lui ha portato un computer con se e io no.

Loredana, ci consegna dei fogli e nella prima pagina viene fuori tutto il mio karma rispetto a questo corso. Tra le prime cose c’è scritto: “perché siete qui?” e a questo punto ho il sospetto che anche le malefiche slide si stiano prendendo gioco di me!

Lei è molto ironica, un bel sorriso per fortuna, indiscutibilmente preparata. Si capisce che è un’ottima osservatrice perché studia ogni nostro movimento con estrema discrezione e attenzione. Ovviamente non le sfugge neanche il senso di insicurezza che mi invade, infatti mi sostiene con qualche frase di incoraggiamento del tipo: “ce la farai...”.

Serrando i denti e stringendo le labbra, a mente mi chiedo: “Ma a fare cosa? Scrivere? Io? Io che proprio non ho nessuna intenzione di pubblicare un libro!”.

Voglio puntualizzare che il mio nome nell’elenco dei partecipanti non deve automaticamente suggerire che ambisco alla pubblicazione di un libro! Sono qui solo per curiosità, per fare esperienza, perché amo scrutare le persone, capire cose nuove, frequentare nuovi ambienti. Nulla di più. Mi pare già sufficiente come scusa per “non scrivere” un libro, no?

Gli altri partecipanti sono tutti molto istruiti e colti: questa cosa mi mette un po’ a disagio. Ognuno ha una sua motivazione, una sua ambizione. In poche parole sanno esattamente perché sono là, seduti su quella sedia a idolatrare l’insegnate. Io invece no, non lo so ancora.

A questo punto sono molto perplessa perché solo ora capisco che dieci anni di psicoanalisi sono serviti a ben poco!

In un paio d’ore l’insegnante ci illustra il percorso da fare e ci sprona a dare un’occhiata a tutte le slide che ci ha consegnato.

Vedo che nel frattempo, ognuno le aveva posizionate sul tavolo in maniera ordinata mentre io sono l’unica ad averle (inconsciamente) ben arrotolate con le mani. Solo ora mi sto chiedendo se, senza accorgermene, le ho utilizzate per giocherellare, come fossero un cannocchiale! Accidenti! Conoscendomi, penso proprio di averlo fatto! Cominciamo proprio bene…

Studio i volti dei partecipanti per tentare di capire dalle loro espressioni se davvero il mio lato “imbarazzante” è emerso con quel gioco così poco professionale. Invece mi accorgo che sono così concentrati che anche se lo avessi fatto veramente, nessuno se ne sarebbe accorto! Oppure no? Forse mi stanno elegantemente ignorando? Un po’ come si usa fare per emarginare un bullo o il “somaro” della classe!?

Capitolo III

L’indulgenza


La nostra insegnante continua serenamente la sua lezione. Fa una piccola premessa e senza alcuna imposizione, cerca garbatamente di sottolineare che preferisce avere i nostri lavori sotto forma di manoscritto anziché in forma stampata (attraverso l’uso del computer). Al che ho pensato tra me e me: “Già che mi hai dato la possibilità di scegliere, stai pur cerca che non rinuncerò mai all’uso del correttore automatico, google e wikipedia! Quindi i miei lavori, anche se la cosa non ti garba, saranno in forma stampata!”.

Dopo averci descritto le linee guida sulla struttura di un racconto, Loredana ci esorta a prendere la slide numero cinque e ci chiede di scrivere su questa pagina i consigli che ci ha fornito, così da tenerli a mente in futuro.

Ognuno impugna la propria penna e, chini sul proprio foglio, tutti cominciano a prendere appunti. Lo faccio anche io, mostrandomi seria e determinata, anche se tra un paragrafo e un altro inserisco qualche “smile” per ricordarmi che la vita va presa con filosofia!

Ad un tratto Carla, seduta di fronte a me, fa cadere per errore la sua penna. Si piega su un lato per raccoglierla e, in questo faticoso tentativo, spinge la sedia in dietro per almeno mezzo metro, facendola stridere fragorosamente sul pavimento. Nessuno di noi alza la testa, ma tutti solleviamo contemporaneamente lo sguardo (e un sopracciglio) per osservare la scena. Lei, con estrema disinvoltura, raccoglie la penna e cerca di sistemare la sedia tirandola a se una, due, tre, quattro volte, facendola sfrigolare rumorosamente sul marmo ad ogni tentativo. Incurante di noi, si concentra ad ogni aggiustamento misurando velocemente lo spazio tra lei e il tavolo. All’improvviso si mette dritta con la schiena come a testare la comodità della posizione. Finalmente riesce a trovare quella giusta! Impugna la famigerata penna e come nulla fosse accaduto, riprende a scrivere i suoi appunti.

Bè, se lei ha fatto questo senza che nessuno la riprendesse, mi sento di meritare l’indulgenza per la storia del binocolo! Secondo voi, sto forse chiedendo troppo? Non so perché, ma in questo momento mi sembra di aver tolto la spada di Damocle che mi pendeva sulla testa: non sento più quel fastidioso senso di imbarazzo che mi affliggeva! I miei pensieri stanno già sfarfallando come se esultassero in una partita chiusa con un pareggio, nonostante i pronostici negativi.

Cerco di non distrarmi e riprendo a seguire con attenzione la spiegazione di Loredana.

Capitolo IV

L’esercizio


Durante la lezione scopro che un racconto va strutturato in un certo modo, seguendo delle regole ben precise: non bastava la mancanza di motivazione, ora ci si mette anche la tecnica da studiare! E in virtù del detto “Repetition is the mother of skill”, comincio con il mio solito mantra “ce la posso fare, ce la posso fare, ce la posso fare” nella speranza di non essere sopraffatta dallo sconforto.

Sono tutti attenti e ognuno cerca di individuare le proprie lacune tranne me, ovvio, che con gli occhi cerco una via di fuga: la finestra, la porta o almeno il bagno!

Pian piano prendo coscienza della situazione e la mia anima, che nel frattempo vagava negli angoli più remoti della casa, finalmente rientra in questo corpo terreno.

Mi rilasso e penso che in effetti non è poi così terrificante questo corso: “Si, non è stata una cattiva idea”, dico tra me e me. Se non fosse che a un tratto mi balza lo sguardo all’ultima pagina della brochure e leggo la parola “Esercizio”.

Il mio mantra è andato a farsi benedire e dentro di me rimbomba, con tanto di eco, solo ed esclusivamente la parola “Esercizio”. Tutti sono entusiasti tanto che non riescono più a tenere fermo il loro fondoschiena sulla sedia!

Ad ognuno è stata assegnata una lettera che dovrà essere presa come spunto per dare un adeguato titolo al racconto che dovremo svolgere a casa in maniera autonoma. A me è stata assegnata la lettera “B”. “B” come… brutte bertucce, baccalà, bisbetica, bistecca, bestiacce, brontoloni, “borca baletta”, “ba a be chi be la batto bare!”, ecc.!!!

Nel frattempo la nostra prima lezione si conclude: è a questo punto che, tra baci e abbracci, cominciano le pacche sulle spalle e le parole di cordoglio nei miei confronti: “ce la puoi fare...”.

Ora che ci penso... ma quello, non era il mio mantra?! Me l’hanno rubato sotto il naso!!!

Rassegnata mi rivolgo alla mia compagna di corso, Alessandra, stando ben attenta a non essere ascoltata da nessun altro: “Cosa scriverai tu? Non è che ti avanzano due righe da passarmi sotto banco?”. Mi ha severamente rimproverata con lo sguardo come fossi una bambina in cerca di un escamotage. Ripensandoci non è stata una buona idea rivolgermi proprio a lei, visto che tra tutti era stata senza alcun dubbio la più attenta e la più disciplinata.

Faccio spallucce e mi abbandono all’idea che l’unico modo per uscirne dignitosamente è quello di fingere un prematuro “blocco dello scrittore”.

Capitolo V

La fuga annullata


Torno a casa avvolta da mille pensieri. Mangio velocemente un panino con tonno e insalata e comincio come al solito a recitare le mie preghiere. Così, dopo aver ripetuto per almeno duemila volte “Namu myōhō renge kyō” davanti al mio butsudan nella speranza di fare chiarezza in me, mi decido ad andare a letto, quantomeno senza sentirmi più addosso il senso di sconforto che poco prima mi angosciava!

La settimana passa in fretta e io, nei ritagli di tempo, cerco di lavorare su questo benedetto “Esercizio”. Sono riuscita a scrivere qualcosa, non so bene in cosa in realtà, ma almeno ho messo insieme delle parole in maniera più o meno ordinata!

Sono assolutamente certa che a questo punto la mia unica speranza è di trovare un alibi per fuggire dal corso, cercando di scoraggiare la mia insegnate a tal punto da farmi cacciar via dalla lezione. L’unica cosa che mi viene in mente è quella di dimostrarle che, nonostante gli sforzi, la mia indole mi porta senza alcun dubbio verso altre strade.

Così cerco di non impegnarmi troppo (e in effetti non credo di aver ottenuto un buon risultato).

I giorni passano e così arriva il famigerato giorno e sta per iniziare la seconda lezione. Rifletto sul mio lavoro e nonostante stia cercando di allontanare da me pensieri negativi, mi viene in mente che io non ho il blocco dello scrittore, piuttosto ho “la croce” dello scrittore!

Vivo con me stessa da 40 anni e ancora devo capire come faccio a infilarmi continuamente in situazioni per me così, come dire? Distruttive. Si, “distruttive” è il termine giusto!!!! Stavo tanto bene nel mio angolino, con il mio lavoro tranquillo, con la casa da pulire, la figlia da educare, ecc. Avevo già il mio bel da fare! Ma come mi vengono in mente certe idee? Partecipare a un corso di scrittura! Imperdonabile questa cosa.

Ecco che Loredana legge uno dopo l’altro i lavori svolti.

Niente da fare! Il mio esercizio nel frattempo non si è perso, malgrado stessi sperando in un’improvvisa dematerializzazione. Lo prende tra le mani e fa scorrere velocemente gli occhi tra le righe.

A un certo punto alza lo sguardo e mi osserva con aria interrogativa. Rapidamente ricontrolla il nome scritto in alto a destra. Eh si, è proprio il mio! Accigliata, mi guarda di nuovo, in un misto tra rimprovero e stupore. Poi rilassa i muscoli della fronte sospirando e mette gli occhiali per non farsi sfuggire neanche una virgola. Mentre lei continua la lettura io comincio a sudare freddo; il respiro comincia a farsi corto e il mio sedere non trova pace sull’ardente sedia di legno.

Finisce di leggere e mette il mio esercizio sul tavolo. Poggia i palmi delle mani su di esso, come a voler immortalare quel momento e innalza severamente il capo.

In questo istante sto vivendo i secondi di silenzio e confusione più inquietanti della mia vita.

Irrigidita, seria, determinata e esultante, prende il mio racconto e lo tira su con la mano destra, volteggiandolo in aria come fosse una bandiera e, rivolgendosi al gruppo, dice: “Ragazzi, questo è un racconto perfetto!”.

Resto basita. Ho gli occhi fuori dalle orbite. La mia bocca si apre senza il mio volere.

Gli altri guardano Loredana, poi me, poi Loredana, poi me e di nuovo Loredana! Poi cominciano a scambiare sguardi perplessi tra loro e infine tutti gli occhi si ritrovano su di me come fossero lance sanguinarie. La mia bocca è ancora spalancata.

Nonostante mi sia impegnata a mostrare tutta la mia poca sostanzialità attraverso la mia buffa esposizione del testo, sono riuscita comunque ad accaparrarmi l’attenzione dell’insegnante. Ero fiduciosa, anzi, ero praticamente certa che Loredana mi avrebbe detto una frase non proprio di circostanza: “Ok! Con te abbiamo scherzato! Puoi partecipare ma ti prego, non scrivere più!”. E invece, no! Nonostante i miei sforzi per sottrarmi al mio saṃsāra, mi ritrovo ad essere travolta per l’ennesima volta dalla mia stessa ruota autolesionista!

Comincio a sentire un borbottio unanime e pian piano arrivano inevitabilmente le frecciatine: “E tu saresti quella che non sa scrivere, eh!?”.

La mia sedia ad un certo punto si trasforma in un mostro di fango e comincia ad ingoiarmi: mi risucchia lentamente come fosse fatta di sabbie mobili: mi sento piccola e indifesa! Per fortuna Loredana mi viene a salvare e, senza perdere altro tempo, dice: “Continuiamo la lezione. Silenzio per favore!”.

Capitolo VI

Il MIO dolcetto


Tutto ritorna pian piano alla normalità e ognuno, disciplinatamente, si rimette dritto sul proprio posto, impugnando la penna come a voler accettare una nuova sfida. L’atmosfera, silenziosa e pacata, sembra quasi serena e tranquilla se non fosse che le sopracciglia di tutti sono vistosamente corrugate.

Io sono talmente in ansia per il mio piano andato in fumo, che non ho tempo di preoccuparmi del loro disappunto!

Sto cercando nuove scappatoie e così mi viene in mente Paola, che era stata assente nella lezione precedente. La guardo con aria inquisitoria: oggi si è seduta comodamente al suo posto e non si è neanche degnata di esternare il suo alibi. Ho la vaga impressione che rimarrà un segreto tra lei e Loredana. Per questo ho deciso, proprio in questo istante, che la terrò d’occhio: questa Tizia, apparentemente tanto innocua, non me la racconta giusta! Con quei capelli corti e ricci, gli occhietti furbi e vivaci, tanto simpatica e allegra! “Ah, ma con me non attacca! Stanne certa!” sibilo tra le labbra strette con la speranza di essere sentita da lei!

Loredana ha preparato una nuove serie di slide. Non ci lascia il tempo di distrarci che subito ce le consegna. Le prendo in mano e, rassegnata, vado a leggere l’ultima pagina. Spero in un miracolo ma la dura realtà mi prende di nuovo a pugni in faccia con la medesima metodica della volta precedente: c’è scritto a caratteri cubitali “ESERCIZIO”. Cerco di digerire il boccone amaro con dignità, sollevando lentamente lo sguardo dal foglio nel vano tentativo di mascherare il mio sconforto.

Inaspettatamente, Paola tira fuori dalla sua borsa un piccolo vassoio e lo posa sul tavolo. Con voce squillante, ondeggiando sulla sedia con soddisfazione, si rivolge al gruppo dicendo: “Ho portato dei pasticcini!”.

Ecco che, all’improvviso, la mia angoscia mentale svanisce e lascia spazio solo ai miei sensi gustativi! Ora sì che si manifesta a pieno tutto il mio entusiasmo per questo corso! Sono quasi tentata di rivalutare l’idea che mi sono fatta di Paola! Poi penso che forse, anche questo fa parte del suo gioco: “starà mica escogitando qualcosa? Sta cercando di costruirsi un’immagine affabile per farci cadere nella sua trappola? Oppure lo sta facendo per farsi perdonare facilmente la sua assenza ingiustificata? E no! Il vassoio sì, lo accetto, ma l’idea che mi sono fatta di te per ora resta inalterata! Sia ben chiaro!”

Loredana ringrazia, intimidita dal gesto, e scarta il vassoio per poi posizionarlo accanto ai bicchieri di carta colorata, al centro del tavolo.

Come le mosche sulla marmellata, il mio sguardo si precipita ad afferrare visivamente il mio dolcetto! Lo vedo, è lì, nell’angolino in fondo a destra: basta allungare un po’ la mano ed è mio!

Si tratta di una piccola pasta sfoglia croccante, a forma di fiore, ricoperta per metà da cioccolato fondente e per l’altra da piccoli granelli di zucchero colorato! Sento già il profumo del cacao e della vaniglia che si sposano sotto il mio naso. Comincio ad immaginare lo scricchiolio tra i denti dello zucchero mentre si mescola con l’amaro del cioccolato fondente: ho l’acquolina in bocca!

La mia mano è faticosamente trattenuta dalle donne del corso che cominciano, con tutta calma (e non so perché), a dialogare tra loro con fare pacato.

Loredana gentilmente si rivolge a Carla:

–– “Prendine uno!”

Carla, rivolgendosi alla sua vicina di posto, dice:

– “Ma no... scegli prima tu Alessandra!”

E lei garbatamente risponde:

– “Fate fate, che poi lo prendo io!”

E invece Francesco, mentre le altre si trastullano serenamente nelle loro formalità di circostanza, allunga la mano e prende serenamente il MIO dolcetto. Lo fulmino con lo sguardo, lo gelo con una tempesta di ghiaccio, gli lancio milioni di saette e lo finisco con l’onda energetica di Goku, il super Sayan dei cartoni animati che vedeva tempo fa mia figlia in televisione! Lui non lo sa, ma se ha salva la vita è solo perché Paola, saggiamente, aveva preso due dolcetti per ogni tipo! Per cui, mentre regnava una sorta di “fate vobis” tra donne, mi affretto a prendere l’ultimo pasticcino al cioccolato che è rimasto: è lì, accanto al posto del MIO dolcetto ormai scomparso, quello che mi è appena stato rubato da Francesco!

Soddisfatta penso: “L’ho preso, è mio! Ora nessuno me lo porterà via!” e lo infilo in bocca prima che si volatilizzi per chissà quale altro imprevisto!

Mentre mastico rabbiosa e con ingordigia, noto lo sguardo disciplinante delle donne che mi fissano con un misto tra sdegno e rimprovero! Si sentono in qualche modo offese nella loro femminilità dal mio comportamento goffo e infantile. Questo perché, nonostante io non ne fossi rappresentativa, appartenevo comunque al genere “femminile”, lo stesso che avevo in comune con loro.

Non ho perso tempo a riflettere su questo mio atteggiamento “femminicida” e, senza chiedermi se fosse giusto il mio o il loro atteggiamento, ho semplicemente ignorato tutto ciò che contiene il galateo nelle sue pagine e ho ingoiato sonoramente il mio tanto desiderato biscotto.

Speravo di pensarlo soltanto, invece ho detto con determinazione:

– “Mbè? Che ho fatto!?”

Francesco, da bravo maschietto, non si era minimamente posto il problema e non capisco perché lui sia dovuto passare nell’indifferenza totale mentre con me era stato indispensabile sottolineare quel comportamento sgraziato, con tanto di sguardi punitivi! Bè, pensassero ciò che vogliono: la cosa fondamentale è che io ho ottenuto il mio pasticcino. Così mi sono chiesta: “Sarà che anche loro desideravano il MIO dolcetto?”

Dopo questa breve pausa, riprende la lezione.

La spiegazione di oggi incarna i punti della volta precedente, sottolineando alcuni elementi ed introducendo nuovi termini che fino ad allora pensavo fossero per me alieni. Ora mi sono più chiari alcuni concetti e mi terrorizzano un tantino meno i passaggi relativi alla struttura di un racconto. Fisso mentalmente alcuni elementi, li metto in ordine e assegno addirittura una didascalia ad ognuno di loro! Soddisfatta della chiarezza che ho fatto dentro di me, comincio a sentirmi “quasi” a mio agio.

La lezione termina anche questa volta. Tutto procede come la volta precedente. Torno a casa, recito le mie preghiere, mi rilasso e mi preparo ad una nuova settimana. Con più serenità, lavoro al mio secondo esercizio.

Capitolo VII

Il mistero della ciotola blu


Inesorabilmente arriva il giorno della terza lezione. Ci ritroviamo di nuovo lì, seduti intorno al tavolo di mogano. Ormai tutti mi osservano con aria minacciosa: non sono più una loro compagna di corso, ma una rivale da sconfiggere. Posso dire addio alle famose “righe passate sotto banco” che speravo di ricevere tempo fa.

Consegniamo come sempre i racconti a Loredana. Lei li raccoglie in maniera ordinata e li sistema seguendo una sua logica, a me ignota.

Improvvisamente mi rendo conto che il mio spirito di sopravvivenza mi ha portata ad affrontare questo “problema” con più sicurezza. Sono riuscita in qualche modo a superare la mia zona di confort ripetendomi “if you can’t then you must”. Soddisfatta di me stessa, mi concentro soltanto sulla lezione, cercando di non pensare al compito che ho svolto a casa.

L’insegnante fa alcune precisazioni sull’impaginazione di un testo, sul carattere da scegliere, il formato, l’impostazione della pagina, ecc. È una persona carismatica ed intelligente. Riesce a portare a conclusione quelle due ore di corso misurando bene il tiro tra ironia e serietà, senza farle pesare. Mi stupisce ogni volta la sua professionalità e la sua preparazione impeccabile.

Loredana si accinge a leggere ad alta voce il primo racconto e, prendendo spunto da esso, comincia ad evidenziare le nostre lacune.

Non ho capito chi ha scritto il racconto che l’insegnate sta leggendo. So solo che, da questo momento, inspiegabilmente il panico si è impossessato di nuovo di me. Provo una profonda invidia per Paola, che era stata assente durante la prima lezione e che con un’altra scusa era riuscita ad essere esonerata dal compito da svolgere a casa. Sono riuscita a perdonarla emotivamente solo per i dolcetti che aveva portato la volta precedente…

Loredana legge uno dopo l’altro i nostri racconti, soffermandosi sulle problematiche che ognuno di noi ha. Ci suggerisce nuovi spunti, correzioni da apportare e ci fa notare dove e come modificare la struttura del testo. Ci ricorda costantemente l’importanza dell’editing mentre continua la lettura dei nostri esercizi.

Purtroppo arriva anche il mio turno. Sinceramente mi sento sollevata perché ero decisamente in agonia su questa sedia e l’unica consolazione che ho, è che questo tormento presto avrà fine!

Sorridendo legge il mio “comico” racconto. Mi dice che è un buon lavoro, mi corregge alcune cose e mi suggerisce di addolcire il finale. Penso: “Tutto qua? Non mi dici che devo darmi all’ippica?”

A questo punto le frasi di incoraggiamento della volta precedente (“ce la puoi fare...”) si trasformano in veri e propri sguardi minacciosi accompagnati da: “Ma ci stai prendendo in giro? Possibile che non hai mai scritto nulla prima di questo corso?”.

Mi chiedo dove sia andata a finire tutta quella galanteria servizievole che avevano le donne del corso nell’offrire il vassoio dei pasticcini la volta precedente: probabilmente nel secchio!

Ognuno è avvolto nei suoi pensieri: siamo concentrati sui nostri racconti, sulle modifiche da apportare.

Ad un tratto Loredana ci sorprende e ci porge una piccola ciotola blu ricolma di foglietti di carta piegati più volte su se stessi, come a voler nascondere in ognuno di essi chissà quale messaggio segreto. Ci esorta a pescarne uno ciascuno.

A questo punto comincio a sfregarmi le mani sotto al tavolo con un certo cinismo perché noto che l’ansia ora non appartiene più soltanto a me, ma anche agli altri partecipanti del corso.

Ricomincia il famoso dialogo tra donne: “fai tu”, “prego, prego”, “scegli prima tu”. In maniera altrettanto sgraziata, come avevo già fatto con il dolcetto, prendo frettolosamente il mio bigliettino. A questo punto però, non c’è stato nessuno sguardo punitivo, anzi! Mi guardano compiaciute quasi volessero spingermi a pescarne un altro e un altro ancora! Scarto il mio foglietto e lo stiro nel palmo della mano. Lo giro per comprendere la lettera scritta al suo interno che, ovviamente, era sottosopra (come me in quel momento). Lettera “E”.

L’insegnante ci chiede di svolgere un racconto partendo proprio da quella lettera, facendo sì che sia uno spunto per lo sviluppo dei nostri racconti, così come avevamo fatto la volta precedente.

Tutto qua? E noi che ci aspettavamo una profezia o almeno due numeri da giocare al lotto!

Capitolo VIII

Sono salva!


Cerco di sbirciare le lettere dei miei compagni di corso, nel vago e incerto tentativo di cambiare la mia lettera con qualche cosa di migliore.

A questo punto, superata la paura dell’ignoto della pesca misteriosa, ognuno ha preso il suo biglietto. C’è chi stringe quel pezzettino di carta sul petto, come fosse un tesoro e c’è chi lo osserva con ardore sistemandolo con precisione sul foglio di lavoro! Vedo i loro sguardi trasognanti, ricchi di entusiasmo e fantasia mentre cominciano a lavorare mentalmente sul loro nuovo racconto da svolgere.

Inebetita riapro il palmo della mano: avevo involontariamente accartocciato la mia povera lettera “E”. Il mio psicanalista senz’altro avrebbe tirato fuori tutta una serie di riflessioni legate a questo gesto dettato dal mio inconscio. Cerco di non cadere nei meandri dell’abisso della psicoanalisi freudiana (che si ferma sull’analisi della causa del proprio male) e mi concentro sulla psicoanalisi Junghiana (che impone, una volta raggiunto il punto finale freudiano, una reazione verso il cambiamento positivo).

Così mi esorto a trovare in uno dei miei tanti cassetti eclettici, una citazione che possa sostenermi.

L’unica cosa che mi viene in mente è una di quelle frasi demenziali che girano su internet “Keep calm and eat Nutella”. Sarà per Freud, sarà per Jung, fatto sta che la mia ansia è svanita e mi sono resa conto, come d’incanto, che se mai dovessi imparare a scrivere seriamente, a nessuno importerà più nulla della mia cellulite!

Questo non è assolutamente un fattore da sottovalutare! Mi brillano gli occhi, come illuminata da una miracolosa grazia divina! Gli angoli della bocca cominciano a salire in maniera evidente! Un senso di soddisfazione mi invade: “Si, questa è la mia strada!”. Certa di aver individuato finalmente il mio percorso di vita, seguo con attenzione tutta la lezione.

Anche questa si conclude, il gruppo si separa e ci dirigiamo ognuno verso la propria auto. Continuo a pensare alla mia amata cellulite: “Questa volta nessuno ci separerà!” penso, e nel frattempo metto un piede in una lastra di fango che si trovava poco prima della mia auto. Così faccio un volo in aria… ehm… non proprio da elegante “farfalla”! Mi ritrovo involontariamente ad ammirare le stelle, nell’imbarazzo totale della mia buffa e sudicia immagine! Sorrido di me stessa e mi alzo coraggiosamente, sapendo già di dover affrontare gli sguardi divertiti dei miei compagni di corso! 

Carla, premurosa, si avvicina dicendo: “Ti sei fatta male?”

E anche qui ricomincia di nuovo la solita tiritera del “bla bla bla” femminile! 

Sono quasi in fase di vendetta perché, mentre loro sono lì a spolverarmi i vestiti chiedendosi come io abbia fatto a cadere, Francesco ride! Ride. Ma ride di gusto!!!! Non si preoccupa neanche degli sguardi severi delle donne del gruppo, gli stessi che a me incutevano una certa soggezione.

Penso tra me e me: “Ridi ridi, la vendetta sarà lenta e dolorosa...” e alzando un sopracciglio, con aria sdegnata, dico: “Tranquille belle donne! Non mi sono fatta nulla! Tutto a posto!” e, zoppicando vistosamente, raggiungo a fatica la mia auto. Salgo, mi siedo, faccio un bel respiro e con il dolore che ancora mi pulsa sul lato destro della gamba, penso: “Anche questa è andata…”.

Trasognante mi avvio verso cosa, certa che questa volta la vita mi abbia dato una buona opportunità. Riflettendo sull’insegnamento di Nichiren Daishonin mi dico: “Ecco come trasformare il veleno in medicina!” e fiduciosa comincio a pensare seriamente di scrivere il mio primo libro, anche se non sono proprio certa di riuscire ad ottenere un buon risultato.

E voi, di tutto questo, cosa ne pensate?


venerdì 4 dicembre 2015

La principessa Arancione


La Principessa Arancione
e i suoi 120 giorni






Un ringraziamento particolare alle Ombre perché senza di loro,
non avrei potuto scrivere questo racconto!


Copyright © di Flavia Di Cosimo
Copyprint @ di Marianna Capponi
gennaio 2015 - dicembre 2015


Questo racconto non è tratto da una storia vera.
Ogni riferimento a cose o persone è puramente casuale.

Prefazione
In questo breve racconto, viene descritto metaforicamente il bizzarro e vario mondo dei social network.
Attraverso una fiaba e senza mai menzionare l’uso del computer, si toccano argomenti molto delicati.
I contenuti scivolano addolciti dalla fantasia della storia, incantando i più piccini attraverso una lettura semplice e scorrevole.
Allo stesso tempo, vengono incastonati nella trama argomenti di profonda riflessione che potranno essere apprezzati dai lettori più adulti.
In modo alternativo, viene descritto un percorso in cui molti, inevitabilmente, si rivedono.
Non a caso sono stati scelti personaggi di fantasia; infatti, attraverso il WEB, ognuno di noi ha la possibilità di costruirsi una nuova identità resettando completamente la vita passata.
Le fasi descritte all’interno del libro rispecchiano le dinamiche di un mondo fantastico: un approccio quasi casuale con una vita parallela, l’inserimento in una comunità virtuale, la conoscenza di meccanismi inconsueti e, infine, il ritorno alla vita reale.
Questo breve racconto vuole sensibilizzare le persone facendo notare quanto è carismatica la rete e sottolineando com’è facile, attraverso questo mezzo, plasmare tutto a proprio piacimento, non sempre in modo positivo e vantaggioso per tutti.
Si evidenzia, quindi, l’importanza di riprendere il contatto con la vita reale per poter non solo “sentire”, ma anche “vivere” le nostre emozioni.
Le anime che ognuno di noi incontra, non a caso e non in un momento qualunque, le ritroviamo qui, in questa metafora.
Tutto ritorna, tutto ha un senso.

Riassunto
I “Colori” citati nel libro rappresentano, metaforicamente, le persone che utilizzano il computer.
Sono distinti attentamente in diverse categorie a seconda delle loro caratteristiche.
La protagonista è la principessa Arancione che si ritroverà, casualmente, all’interno di questo mondo parallelo.
Verrà immediatamente travolta dalla curiosità e dall’entusiasmo perché avrà l’impressione di non sentirsi più sola.
Ben presto, ignara delle dinamiche che caratterizzano questo ambiente virtuale, si ritroverà a percepire un grave pericolo che la porterà istintivamente a fuggire via.
La principessa non riuscirà a tornare facilmente nella vita reale, in quanto prigioniera di un sortilegio che le era stato fatto molti anni prima, al di fuori della sfera.
Un misterioso colore Bianco, un’anima nobile, la salverà, svelandole una magia che la libererà dal un soffocante incantesimo.
Con fede e speranza, la principessa riuscirà ad affrontare il suo passato, la sua Ombra, e comincerà a vedere la sfera in modo diverso.
Superati i 120 giorni, senza quasi rendersene conto la principessa troverà finalmente la sua reale dimensione e riuscirà a liberarsi per sempre dalla sfera e, soprattutto, da un passato che l’opprimeva.

Capitolo I
La principessa Arancione e la sua solitudine




 In un tempo non molto lontano, c’era una graziosa principessa di nome Arancione che viveva in un bellissimo villaggio incantato.
Era una fanciulla piccina, dalle forme morbide e aggraziate; aveva un animo vispo e gentile, sempre pronto ad accogliere nuove emozioni.
I suoi occhi neri erano profondi e disarmanti, così ingenui da riuscire a spogliare delle loro armature anche i guerrieri più temerari!
Aveva lunghi capelli castani raccolti sulla testa e tenuti ben saldi da un antico fermaglio di perle. Alcune ciocche ribelli sfuggivano e si poggiavano delicatamente sulle spalle minute, formando dei graziosi riccioli di seta.
Il prezioso fermacapelli le era stato donato dalla nonna Amaranta quando era ancora in fasce. Una donna forte, dallo sguardo severo, incapace di donare affetto sia con i gesti che con le parole. Era legata alle tradizioni, ad un’educazione rigida e punitiva. Una corporatura imponente e orgogliosa la mostrava in tutta la sua autorità. Aveva due occhi penetranti che incutevano terrore: non appena si incrociava il suo sguardo, un brivido improvviso saliva sulla schiena tant’era la paura di affrontarlo!
Quell’oggetto, tramandato di generazione in generazione, era simbolo di rispetto per una figura decisamente matriarcale.
Sebbene la nonna Amaranta si mostrava emotivamente blindata, la principessa le era molto legata e per nulla al mondo avrebbe tolto quel fermaglio dai suoi capelli, soprattutto ora che lei non c’era più.
Nonostante fosse cresciuta in un’atmosfera gelida e rigorosa, la principessa aveva un carattere molto gioioso e solare.
Spesso però, si ritrovava spenta in una profonda tristezza ed era incapace di capirne l’origine. Cercava di trasformare questo stato d’animo grigio e malinconico in qualcosa di positivo, attraverso un costante sorriso che, ironicamente, le scavava due graziose fossette vicino agli angoli della bocca.
Da molto tempo, ormai, i boschi e le pianure del suo meraviglioso villaggio, erano deserti: tutti gli abitanti erano misteriosamente scomparsi nel nulla.
Perplessa e disorientata, la principessa provò più volte a cercarli percorrendo i sentieri e scrutando con attenzione in ogni angolo. Non trovò mai nessuno tanto che decise di rinunciare.
Rassegnata, cominciò a trascorrere le sue lunghissime giornate in solitudine, osservando silenziosamente, dalla grande finestra del palazzo il paesaggio dei boschi circostanti.
Un bel giorno, presa dallo sconforto e dall’insopportabile senso di vuoto, decise di consultare la sua vecchia sfera di cristallo con la speranza di ritrovare qualche anima amica.
L’aveva riposta, molti anni prima, nella vecchia torre del palazzo in cui abitava. Con determinazione, andò a cercarla: tra scatole, vecchi giocattoli, libri impolverati e mobili tarlati, finalmente la trovò!
Soddisfatta, la lucidò con il lembo del lungo abito di raso; senza mai distogliere lo sguardo dal prezioso oggetto; poi tornò velocemente nella sua stanza.
Con una mano continuò a tenere ben salda la palla di cristallo, mentre con l’altra si tolse la corona dalla testa, la poggiò sul tavolo e infine, al suo interno, vi posizionò delicatamente la sfera ritrovata.
Pronunciò alcune parole magiche che le consentirono di accedere velocemente all’interno del misterioso globo: in meno di un secondo, questo si riempì di mille luci variopinte e la principessa Arancione, con meraviglia, scoprì che dentro di esso vi era un fantastico mondo nascosto!

Capitolo II
La sfera di cristallo

La magica palla conteneva milioni di Colori: erano tutti di forma sferica ed erano sempre fermi nello stesso punto. Avevano tinte e dimensioni differenti; alcuni erano quasi spenti, altri, invece, brillavano di luce propria.
Spesso cambiavano la loro intensità a seconda dei Colori con cui erano in contatto. Infatti, i magici puntini della sfera spesso si univano, per un periodo più o meno lungo, attraverso sottilissime scie luminose che si spostavano elettricamente, agganciandoli l’un l’altro in maniera quasi casuale.
La vivacità della luce dei Colori variava proprio nel momento in cui due di essi si collegavano, aumentando o diminuendo, quasi volessero esternare la loro gioia o il loro disappunto nell’unirsi!
Stupita dalla straordinaria scoperta, la principessa cominciò ad osservare ogni giorno quelle tinte perché voleva scorgerle tutte, anche quelle nascoste in profondità. Le studiò attentamente in ogni singolo dettaglio, collegandosi ogni giorno alla sfera con estrema costanza.
Riuscì ad agganciarsi facilmente ai misteriosi Colori contenuti nella palla sparpagliando, qua e là, parole magiche che le consentivano di acchiappare le scie luminose.
Nel giro di pochi giorni, cominciò ad avere contatti regolari con alcuni puntini variopinti: ogni volta che si creava un collegamento con loro, si sviluppava in lei una luce profonda e intensa. Con altri Colori, invece, mantenne rapporti più superficiali e spenti. All’interno della sfera, vi erano anche delle tinte particolari: la principessa le vedeva lì, presenti, ma con loro, non aveva avuto mai alcun contatto.
Con il tempo riuscì a distinguere tutte le sfumature contenute nel magico globo e senza rendersene conto, si ritrovò anch’ella a farne parte. Lentamente, rimase incantata dal luccichio di tutti quei puntini colorati: i giorni passavano uno dopo l’altro e lei, completamente accecata dal bagliore di quelle luci, perse completamente di vista la realtà che la circondava.


Capitolo III
I colori e i personaggi della sfera
All’interno del magico globo, si potevano distinguere diversi gruppi di Colori: tra tutti, la principessa amava in particolar modo quelli Vivaci.
Erano allegri e scintillanti: si divertivano a stuzzicare le altre tinte, coinvolgendole nei loro giochi, per farle brillare di più. Inventavano piccoli trucchi di magia e riuscivano così a rallegrare anche gli animi più grigi!
Ogni volta che agivano in questo modo con un particolare puntino della sfera, il Colore da loro “toccato” aumentava la propria forza vitale e la sua tinta diventava improvvisamente più intensa e luminosa. Con il loro comportamento amorevole e sbarazzino, portavano gioia e serenità lì dove ve n’era bisogno.
La principessa si relazionava spesso con loro perché amava giocare! Si scambiavano ironicamente parole magiche, creando di conseguenza un’atmosfera frizzante e leggera!
In quelle occasioni, si dimenticava della solitudine che la circondava e della tristezza che spesso la soffocava; così, per pochi attimi, aveva l’impressione di non essere più sola.
All’interno della sfera, vi erano anche i colori Tenui: erano teneri e a volte un po’ infelici. La principessa scoprì che ad ognuno di loro, in passato, era stata rubata parte della tinta. Era molto dispiaciuta, ma non sapeva cosa fare per aiutarli.
Per fortuna, di lì a poco, notò una cosa interessante: nel momento in cui un colore Tenue sembrava spegnersi completamente, arrivava come per incanto un colore Vivace ad aiutarlo: questo si avvicinava, punzecchiandolo più volte, e magicamente il colore Tenue riprendeva tutto il suo delicato splendore!
Intravide, all’interno della sfera, anche i colori Trasparenti. Elegantemente silenziosi, si trovavano tra le varie tinte, anche se quasi nessuno li notava. Loro, sempre attenti e curiosi, osservavano tutto e, insieme agli altri colori Trasparenti, facevano una gran confusione all’interno del magico globo perché si divertivano a creare storie immaginarie su tutti gli altri Colori, prendendo spunto da piccoli pettegolezzi colti qua e là.
Vide poi molti colori Sfumati: erano giovani e ancora indefiniti. Cambiavano colore con facilità, facendosi assorbire dalle nuance con le quali si agganciavano, come se queste avessero su di loro un’influenza misteriosa. Osservandoli con cura, la principessa Arancione capì che con il tempo i colori Sfumati si trasformavano: anch’essi, infatti, assumevano pian piano un colore definitivo e da quel momento diventavano di un’unica tonalità.
Tra i colori Definitivi (Vivaci, Tenui e Trasparenti), notò un’altro bizzarro comportamento. Essi tendevano a mescolarsi tra loro per poi separarsi qualche tempo dopo. Spesso l’uno imprigionava parte della tinta dell’altro, facendola propria per sempre, creando così una nuova variante al proprio colore.
Talvolta accadeva che si mescolavano talmente tanto e in maniera così profonda che diventava impossibile separarli. Così, come per magia, una scintilla di luce dorata appariva vicino a loro e da essa nasceva magicamente un nuovo colore Sfumato!
Infine c’erano i colori Grigi, tristi e spenti. In genere si diventava così con il tempo. Le cause erano tante e tra queste, la più evidente era da attribuirsi alle “Ombre”.
La principessa Arancione le vide più volte: erano scure e tenaci. Eclissavano i colori Tenui fino a farli diventare Grigi: questi venivano scelti attentamente tra le mille nuance contenute nella sfera, proprio perché erano più fragili e delicati, quindi più facili da manipolare e assorbire.
Le Ombre si comportavano sempre nello stesso modo: si avvicinavano alla vittima prescelta e gli mostravano la loro enorme “ombra”, come fosse la maestosa coda di un pavone colorato! Poi, con fare astuto ed esperto, mescolavano il loro colore nero con quello Tenue, avvolgendolo completamente con tonalità scure e penetranti! Poi, sazia e soddisfatta per aver del tutto impoverito il colore Tenue, l’Ombra decideva di andare a risucchiare un altro colore, lasciando in un angolo la povera tinta ormai spenta e ingrigita, senza curarsene più.
Il colore Tenue non sempre riusciva a reagire in tempo e di conseguenza si ingrigiva. Così, incapace di separarsi da quel colore tenebroso, ne restava fatalmente imprigionato per sempre.
Altre volte, invece, riusciva inconsapevolmente a salvarsi. Infatti capitava che il colore Tenue si ritrovava mescolato con il colore nero dell’Ombra e, improvvisamente, si sentiva infastidito ed irritato dal grigiore che via via si andava formando dentro di se, come fosse un veleno urticante, si distaccava appena in tempo dall’Ombra, riuscendo a liberarsene. Ignaro del pericolo scampato, tornava tra gli altri colori Tenui mentre l’Ombra, indifferente, andava a cercare un’altra tinta da assorbire. Questo però poteva accadere solo se i due colori non erano abbastanza uniti da diventare inscindibili; in caso contrario era impossibile che il colore Tenue potesse farcela da solo!
All’improvviso, mentre osservava i colori nella sfera, la principessa Arancione realizzò che anch’ella era un colore e solo in quel momento capì di essere entrata a far parte di quella vita immaginaria, allontanandosi completamente della realtà! Cominciò a vedere la sfera e i Colori in modo diverso, ampliando la visione che aveva avuto fino ad allora.
Pian piano comprese che dietro ogni puntino luminoso contenuto all’interno della magica palla, c’era una sfera come la sua. Ognuna di essa rappresentava un personaggio: una principessa, un principe, uno gnomo, un folletto, una strega, un mago, una fata, un drago o addirittura un mostro!
Cominciò a porsi mille domande: “Perché mai una fata dovrebbe aver necessità di agire attraverso una sfera? E che ci fa’ qui un drago?! E io... Anche io sono qui...! Perché?”
Le risposte alle sue domande arrivarono nei giorni seguenti.
Dopo attente riflessioni, capì che il mondo dei Colori era diventato un’enorme opportunità per tutti quei personaggi che appartenevano a vecchie fiabe ormai dimenticate. Attraverso la sfera di cristallo, avevano la possibilità di mostrarsi per ciò che realmente erano o che NON erano, così da poter raggiungere i propri obiettivi.
Accadeva quindi che maghi e fate dai colori Vivaci facevano preziosi incantesimi a chi preferivano, senza sentirsi in dovere di rispettare alcun copione di racconti fiabeschi!
Principi e principesse, che erano in genere delle tonalità di Azzurro o Rosa, si mostravano in tutta la loro bellezza ed avevano una luce particolarmente brillante che spiccava tra tutte! Quando si agganciavano tra loro, diventavano colori Vivaci e si rivelavano in tutto il loro splendore, non curanti degli altri puntini contenuti nella sfera! Se non riuscivano ad acchiappare nessuna scia luminosa per mettersi in contatto con un principe o una principessa, quasi si spegnevano, diventando così colori Tenui.
Le streghe e gli stregoni, invece, si divertivano a fare dispetti e a portare scompiglio qua e là: ovviamente si trattava dei colori Trasparenti!
Vi erano poi gnomi, elfi e folletti (dai colori Sfumati) che giocavano liberamente come fanciulli e mantenevano sempre un contatto con almeno un colore definitivo.
La principessa capì inoltre che i colori Grigi rappresentavano personaggi delle fiabe colpiti da un malefico sortilegio. Avevano perso completamente la loro tonalità ed erano diventati tristi e cupi, privi di luce propria.
Infine, tra le Ombre, vi erano i draghi e i mostri: di questi bisognava aver paura perché avevano la possibilità di ingannare e divorare le prede più deboli con estrema facilità, abbagliando i Colori con una falsa identità.

Capitolo IV
Il colore Bianco

La principessa Arancione,  impaurita da questa scoperta e sopraffatta dal panico, prese tra le mani la sfera di cristallo e si diresse rabbiosa verso la finestra con l’intenzione di gettarla via e liberarsene per sempre.
Ma ecco che, proprio in quel momento, attraverso una scia luminosa un brillante colore Bianco si agganciò alla sua sfera. Lei, abbagliata dal chiarore della sua luce, si fermò e ripose nuovamente la sfera all’interno della corona. Poi, incantata, si fermò ad ammirarlo.
Lui, con fare sicuro e delicato, le disse:
–“Io vedo in te un grande dolore dovuto ad un brutto incantesimo fatto da un’Ombra del passato. Quest’Ombra non si trova nella sfera, ma nel mondo reale. E’ proprio per questo motivo che tu, senza rendertene conto, ti sei rifugiata qui. E’ stato come fuggire via da un forte dolore perché la tua anima è convinta di non essere in grado di poterlo affrontare.”–
E senza darle il tempo di riflettere, continuò:
–“Non sono un principe e non conosco fate! Ma posso insegnarti una magia per liberare la tua luminosità e diventare di nuovo un colore Vivace. Per fare ciò, dovrai semplicemente aprire il tuo cuore ed ascoltarmi attentamente… Se te la senti, ti spiegherò come fare.”–
Solo in quel momento la principessa Arancione realizzò di non essere più un colore Vivace; capì di aver perso la sua brillante tinta in un tempo talmente lontano da non ricordarlo neanche più!
La familiare tristezza l’avvolse di nuovo, silenziosamente. I pensieri si affollavano nella sua mente: era incapace di metterli in ordine, tanto era rimasta frastornata e stupita da quelle parole.
L’incontro con il colore Bianco non era stato casuale. Sembrava come se un angelo dal cielo lo avesse mandato da lei per salvarla! Così, senza pensarci troppo, accettò l’invito e con incertezza rispose:
–“Non sono sicura di potercela fare, ma non ho paura! Voglio affrontare la mia Ombra! Ho un macigno nel cuore e catene nella mente che mi fanno sentire oppressa e sola. So che devo lottare e trovare pace dentro di me per ritrovare la mia amata libertà…”–
Così lui, fiero della scelta che la principessa aveva preso, continuò dicendole:
–“Ti insegnerò una magia ma tu, alla fine, dovrai essere talmente forte da riuscire a perdonare l’Ombra che ti ha fatto questo sortilegio. E dovrai imparare ad amarla tenendo nel tuo cuore solo la parte positiva che ti ha segnata e lasciando andar via per sempre la parte negativa. Solo con il perdono e l’amore potrai rompere l’incantesimo che ti tiene prigioniera..."–
Poi smise di parlare per qualche istante ed osservò la principessa per essere certo che quelle parole fossero arrivate dritte al suo cuore.
Finalmente la principessa Arancione, dopo interminabili attimi di riflessione, annuì con il capo. Così il colore Bianco continuò dicendo:
–"Affronta l’Ombra che ti ha incantata, anche se ti spaventa ed è lontana ormai: a voce alta, esprimi le tue emozioni, che siano esse di rabbia, dolore o frustrazione! Poi digli che la perdoni e che la ami, sottolineando le cose belle che ha lasciato dentro di te. Ricorda che le anime non possono essere completamente bianche o nere. Abbi compassione per la tua Ombra e, soprattutto, per te stessa. Non dimenticare mai che dovrai perdonare l’Ombra con tutto il cuore, altrimenti ne rimarrai per sempre imprigionata! Te la senti di continuare?”–
A quelle parole la principessa si irrigidì. Un senso di ansia e terrore stava offuscando la sua mente. Prima che queste emozioni si impadronissero di lei, in maniera confusa e perplessa, chiese:
–“Non so che dire... Chi sei tu? Come fai a sapere queste cose di me, del mio passato? Perché dovrei crederti e seguire i tuoi consigli?”–
Il colore Bianco, con dolcezza, la rassicurò dicendole:
–“Non sono io colui che devi temere. Io ho il dono di individuare questi sortilegi e mi avvicino solo a chi è in grado di ascoltare le mie parole. Non ho bisogno di nulla in cambio. L’unica cosa che mi ripagherà, sarà la tua felicità”–
La principessa Arancione si sentì piccola e umile di fronte a quell’amore incondizionato. Così, senza avere alcuna certezza su chi fosse quel misterioso colore con il quale stava parlando, cominciò a credere con fiducia alle sue parole e disse:
–“Voglio fare ciò che mi dici. Voglio eseguire la tua magia. Non posso negarti che ho paura, anzi… Sono terrorizzata! Non so a cosa sto andando incontro, ma so che non posso più vivere senza la mia libertà!”–
Il colore Bianco, felice per la risposta ottenuta, disse:
–“Bene. Non aver paura perché già da ora stai migliorando la tua vita! Quando avrai completato la magia, dovrai contare centoventi giorni. Ogni giorno che passerà, sarai sempre più consapevole delle parole magiche che avrai pronunciato. Allo scadere dell’ultimo giorno, finalmente, sarai completamente libera dall’incantesimo che ti è stato fatto e diventerai di nuovo un colore Vivace!”–
La principessa Arancione, ascoltò con attenzione, e si concentrò sul da farsi.
Poi, con tenerezza, il colore Bianco le disse:
–“Ora devo lasciarti. Ti ho portato a conoscenza della magia di cui hai bisogno. Usala con amore. Io rimarrò comunque al tuo fianco, anche se tu non  potrai  più vedermi. Se necessario, ti perdono… Ma di certo ti amo.”–
Quelle parole rimbombarono nella testa della principessa a tal punto da confonderla. Non voleva lasciarlo andare per paura di restare sola, di non farcela.
Poi coraggiosamente salutò il colore Bianco, lasciandolo libero di continuare la sua strada da solo. Lui, frettolosamente, sganciò la scia luminosa dalla sfera e la diresse verso un altro Colore bisognoso di aiuto.
In quel preciso istante, la principessa ebbe la sensazione di sprofondare nell’ignoto e cominciò a sentire un opprimente vuoto intorno a se.
Stanca e pensierosa si lasciò abbracciare da Morfeo fino al mattino.


Capitolo V
Il bosco e i 120 giorni

Il giorno seguente, la principessa andò nel bosco per cercare un angolo confortevole dove poter eseguire correttamente la sua magia.
Quasi smarrita, cominciò a vagare tra gli alberi.
Ad un tratto, vide un grande tronco ormai dimenticato dal tempo. Il suo interno era svuotato dalle intemperie e dal passare degli anni: si presentava agli occhi della principessa con una forma  accogliente e rassicurante, quasi a volerla incoraggiare a sedersi lì dentro.
Lei, tacitamente, accettò l’invito del vecchio albero e con grazia si inginocchiò al suo interno, cercando una posizione confortevole.
Disorientata, cominciò ad osservare l’ambiente circostante: il continuo fruscio delle foglie e il dolce cinguettio degli uccellini la spinsero  a procedere.
Così, dopo aver fatto un profondo respiro, seguì attentamente le istruzioni del suo mentore e pronunciò le parole magiche dettate dalle sue emozioni.
Man mano che la sua bocca esternava ciò che sentiva dentro, l’energia del suo animo si prosciugava e un senso di liberazione cominciava ad invadere il suo spirito.
Le lacrime cominciarono a scendere copiosamente mentre i brividi di gelo le ricoprivano la pelle. Il suo fragile cuore cominciò a battere all’impazzata, rimbombando ritmicamente fin sopra le tempie e le mani presero inspiegabilmente a tremare.
Il ruggito delle sue parole fu talmente forte da far risvegliare la natura intorno a lei: il vento cominciò a fischiare minaccioso e le foglie presero a volteggiare pungenti, formando un vortice intorno al grande albero. Nel frattempo gli animali, impauriti, si rifugiarono ognuno nella propria tana.
Poi, di colpo, le sue parole terminarono: i suoi  occhi spalancati, ancora pieni di lacrime, erano persi nel nulla.
Finalmente il “vero” vuoto si impadronì della principessa: un vuoto leggero, un vuoto di pace, un vuoto di sollievo.
In quel momento, tutto si fermò: il vento smise di sibilare e le foglie caddero improvvisamente a terra. Un silenzio inquietante regnava sovrano su tutto il bosco.
Non durò molto e pian piano tutto ricominciò a prendere vita. Gli animali cominciarono a fare capolino e ripresero  timidamente le loro abitudini.
Il gradevole fruscio delle foglie si divertiva a comporre nuove e frizzanti melodia mentre gli uccellini ripresero a cantare armoniosamente.
La principessa, finalmente, si sentì completamente libera da ogni oppressione.
Indebolita ed estenuata, perse i sensi accasciandosi a terra dolcemente.
Al suo risveglio, trovò accanto a se una cassetta trasparente: all’interno vi erano decine di messaggi, scritti su graziose foglie di carta colorata.
Con consapevolezza, cominciò a leggerli uno dopo l’altro dedicando la giusta attenzione a ciascuno di essi.
In ogni biglietto si parlava di un argomento diverso: amicizia, amore, passione, dolore, giochi e di molto altro ancora.
L’espressione sul viso della principessa mutava a seconda del contenuto scritto sul cartoncino colorato: alternava fragorose risate a lacrime di compassione. Le sfuggivano spesso sorrisi di comprensione e a volte si ritrovava a fare carezze a quelle foglie di carta, come fossero delle fragili mani da confortare.
Dopo averli letti tutti con pazienza e riflessione, si rese conto che la trasformazione in lei era già cominciata. In quello stesso istante le si aprì un nuovo mondo davanti agli occhi. Prese la cassetta e, commossa, la strinse forte al petto.
Giunta la sera, la principessa Arancione corse lungo il sentiero del bosco e si diresse nuovamente verso il castello.
Incoraggiata dai primi segni di cambiamento, decise quindi di cominciare a contare, uno dopo l’altro, i suoi centoventi giorni.
Durante questo periodo, osservò ancora i Colori nella sfera. Lesse molti altri messaggi che misteriosamente continuavano a riempire la cassetta trasparente.
Come aveva imparato dal colore Bianco, cominciò anch’ella, nel suo piccolo, a stuzzicare i colori Tenui e Grigi. Li individuava tra i messaggi che riceveva e cercava di dare loro forza e vivacità, imitando i colori Vivaci e seguendo l’insegnamento appreso! Questi, man mano, fecero lo stesso con altri Colori spenti e ingrigiti.
Così, mentre i giorni passavano, la magia si ripeteva tacitamente ancora, ancora e mille volte ancora!
Presto, all’interno della sua sfera, i colori Tenui e Grigi non si videro quasi più mentre risplendevano vigorosamente tutti i colori Vivaci!
Man mano che i giorni passavano, il colore della principessa Arancione diventò più forte e intenso a tal punto che le Ombre della sfera, inibite dalla luce prorompente, scomparvero del tutto!
Arrivò il centoventesimo giorno e la principessa Arancione neanche se ne accorse! L’incantesimo, dolcemente, era svanito nel nulla lasciando al suo posto un’immensa luce dello stesso colore del sole.
La principessa provava infinita gratitudine per essere stata liberata dal sortilegio e ricambiava tale gesto nello stesso modo, donando amore incondizionato a tutti i Colori bisognosi che incontrava. Presto però si rese conto che la sfera non le bastava più. Aveva bisogno di occhi da guardare, mani da stringere e corpi da avvolgere.
Fu così che decise di uscire per sempre dalla sfera.
Con una piccola magia, la principessa interruppe il collegamento ad essa e di colpo la preziosa sfera si spense definitivamente. La lasciò lì, nella sua corona, come se fosse quello il suo posto. L’accarezzò per un’ultima volta, ringraziandola per tutto ciò che, inconsapevolmente, aveva fatto per lei.
Tolse il fermaglio dai capelli: questi le caddero sulla schiena in maniera disordinata. Tenendolo tra le mani, lo sfiorò dolcemente con le dita; poi lo poggiò proprio accanto alla foto della nonna Amaranta, su un’antica madia di mogano scuro. Guardando la foto, con serenità disse: “Addio nonna. Ti perdono e ti amo. Ora sono libera...”
Si girò senza rimpianti ed andò ad ammirare l’alba, consapevole che un nuovo giorno le era stato preziosamente donato.
Da allora, cominciò a vivere serenamente ogni attimo della sua vita gioendo di tutto ciò che la circondava, senza più quella misteriosa tristezza che l’avevano afflitta per tanti anni.
La pace interiore esplodeva in tutta la sua brillantezza: finalmente era libera di amare e di essere amata in maniera incondizionata.


Se necessario, “vi perdono”...
ma di certo “vi amo”!

Fine